Uomini di pietra

Uomini di pietra

Come promesso ieri, questa sera vi racconto un’altra storia di popoli che si spostano, di scambi di cultura e di conoscenza.

Non è un racconto di fantasia, ma i protagonisti sono proprio uomini di pietra.

Sono comparsi alla fine degli anni Sessanta nella periferia occidentale di Aosta. Grosse pietre che facevano capolino dalla terra, incuriosite da quel mondo così diverso da quello che avevano conosciuto loro.

Erano rimaste sepolte quattromila anni. Molti passi avevano camminato su quei terreni divenuti strade, quartieri, case e poi asfalto, condomini.

Era cambiato tutto ma loro erano rimaste, testimonianza di un tempo lontano che tornava alla luce.

Per comprendere il loro mondo dobbiamo andare indietro fino al III millennio a.C. C’è già stata la rivoluzione neolitica, l’agricoltura e l’allevamento hanno sostituito la caccia e la raccolta e l’uomo ha iniziato a lavorare i metalli. Ci troviamo infatti nel mezzo dell’Età del Rame.

Gli abitanti della piana di Aosta hanno scelto un luogo importante, sacro. Siamo in quello che oggi è il quartiere di Saint-Martin-de-Corléans. Qui i nostri antichi antenati iniziano a scolpire enormi pietre. Realizzano figure umane, con vesti decorate, armi, lunghe sopracciglia e nasi pronunciati (immagine 1 e immagine 3).

Chi sono questi uomini di pietra? Ma poi, siamo sicuri sicuri che siano uomini? Perché non donne?

Non sappiamo chi siano. Gli uomini forse hanno le armi, le donne vesti sgargianti ma non è detto che sia così. Antichi re? Eroi? Divinità? Possiamo chiudere gli occhi e decidere noi chi vogliamo che siano. Antichi re e regine. Capi tribù.

La cosa curiosa è che le stele antropomorfe, questo il loro nome, si trovano anche al di là delle Alpi. E non sono solo simili a quelle di Aosta, alcune sono proprio uguali. Confrontate l’immagine 1, la stele a doppia spirale di Aosta, e l’immagine 2. Questa seconda stele è stata rinvenuta a Sion, in Svizzera, poco dopo il confine nella necropoli di Petit-Chasseur. Tutte e due hanno al collo la doppia spirale, un cinturone in vita e il pugnale.

Questo ci fa capire che le genti del passato vivevano in un mondo diverso dal nostro, dove non vi erano confini segnati per terra. Perlomeno, non come li conosciamo noi oggi. Non avevano macchine, aerei e non potevano comunicare con un telefono. Eppure si spostavano, si parlavano, si contaminavano a vicenda. Perché è evidente che tra i due popoli che vivevano ai due lati delle Alpi vi era un forte e stretto legame.

Questi giganti di pietra ci appaiono oggi maestosi. Ci fanno quasi paura, freddi e possenti. In verità non erano così: erano pieni di colori. Sulla loro superficie sono state infatti ritrovate alcune deboli tracce di colore.

Un sussurro di quella antica magnificenza.

Per approfondire:

AA.VV., Area Megalitica di Saint-Martin-de-Corléans. Una visione aggiornata, Regione Autonoma Valle d’Aosta, Aosta

I colori dei “secoli bui”

I colori dei “secoli bui”

Tenetevi per mano e prendete la rincorsa che oggi facciamo un bel salto.

Voilà. Abbiamo attraversato tutta l’epoca romana per immergerci in quelli che spesso vengono chiamati erroneamente “secoli bui”. L’Impero Romano finisce, è vero. Le strade diventano pericolose, ci si chiude un po’ di più ma non si smette di viaggiare e soprattutto non si smette di contaminarsi.

Intorno al V secolo diverse popolazioni oltrepassano i valichi alpini e sconfinano nel nostro territorio. Quei colli del Piccolo (Alpis Graia) e del Gran San Bernardo (Summus Poeninus) che ancora oggi sono tanto importanti, la loro vita è lunghissima ma si tengono in forma.

Burgundi, Longobardi e Franchi. I Burgundi hanno lasciato poche tracce, ma meravigliose. Se andate al museo archeologico troverete nell’ultima sala una vetrina che contiene due oggetti preziosi: fibbie di cintura (immagine 1) decorate con lamina d’oro con motivi animalistici. Questo stile di decorazione è tipico delle popolazioni germaniche e si chiama proprio “stile animalistico”: animali che diventano nastri e si intrecciano sulla superficie da decorare. Ogni spazio deve essere decorato. Horror vacui si dice, paura del vuoto. Ed ecco che ce li possiamo quasi immaginare, questi artigiani che sapientemente lavorano il metallo e smettono di essere genti di popoli rozzi senza arte ma diventano espressione di una cultura diversa ma altrettanto meravigliosa.

Queste popolazioni sono nomadi o seminomadi. Si spostano di continuo, non possiamo dunque aspettarci che la loro cultura e la loro arte si esprimano come quelle dei romani con grandi monumenti e statue colossali. La loro cultura si esprime in oggetti minuti, facili da trasportare.

Nella stessa vetrina vi è un altro esempio di arte germanica: due pettini in osso (immagine 2). Oggetti semplici, eppure così incredibili. Non ci sembra così tanto diverso da noi chi ha posseduto questi pettini. Siamo lontani nel tempo eppure così vicini e quel mondo non ci sembra più così strano o così diverso.

La vera bellezza, però, sta nelle contaminazioni. Nel sincretismo tra culture diverse. Elementi diversi che si fondono in un tutt’uno e creano sempre qualcosa di incredibile.

Siamo giunti al 563. Arrivano i Longobardi. Occupano l’Italia e anche la nostra regione. Siamo spesso abituati a sentire questo periodo raccontato con toni catastrofici. Popolazioni che arrivano e distruggono tutto, cancellando la cultura latina e ciò che era stata. Non fu così, ovviamente. Ci furono guerre e distruzioni, certo. Ma non fu cancellato tutto. Ci fu un momento di conquista, ma dopo seguì l’integrazione dove le culture diverse che si erano incontrate iniziano a fondersi e a contaminarsi vicendevolmente. Ne troviamo un esempio sempre al museo archeologico: l’ambone (pulpito) rinvenuto nella Cattedrale di Aosta e datato tra il VII e l’VIII secolo (immagine 3). Un elemento monumentale, espressione della cultura latina, si fonde con quella tipica arte decorativa dello stile animalistico germanico: sulla superficie di pietra infatti compaiono animali che diventano nastri e corrono sulla fredda superficie a ricoprirla integralmente.

Un bellissimo esempio di culture che si incrociano, contaminano, confondono creando arte.

Per approfondire:

AA.VV., MAR Museo Archeologico Regionale. Guida Contesti Temi, Musumeci Editore, Aosta, 2014

Cerutti A. V., Le Pays de la Doire et son peuple, Musumeci Editeur, Aoste, 1995

Janin E., Le Val d’Aoste. Tradition et renouveau, Musumeci Editeur, Aoste, 1976

Zanotto A., Histoire de la Vallée d’Aoste, Musumeci Editeur, Aosta, 1980

Si va in scena

Si va in scena

Aosta è una città piccina immersa nelle montagne e abbracciata da due fiumi: la Dora Baltea, l’ultimo piccolo respiro di quel possente Ghiacciaio Balteo che ha dato vita alla nostra Valle, e il Buthier.

Aosta nasce nel 25 a.C. per volere dell’imperatore romano Augusto. Tra le sue vie, le sue strade e i suoi vicoli si nascondono ancora molte tracce di quel lontano passato, piccoli frammenti di un tempo che fu. Se si ascoltano con attenzione queste pietre si può sentire il loro sussurro: ognuna di esse ha un luogo da raccontare.

Con questa prima pagina voglio raccontarvi di uno di questi luoghi. Un luogo del cuore, per me: il Teatro Romano.

Tante volte, da ragazzina, camminavo fino al teatro e mi perdevo tra le sue pietre. Rimanevo ad ammirarlo per ore, nel silenzio, e immaginavo i passi infiniti che nel tempo sono riecheggiati tra le sue pietre. Le risa, i pianti, le risse, gli spettacoli, i baci, gli abbracci, gli sbadigli.

Il Teatro non venne costruito insieme alla città, ma qualche tempo dopo. La sua costruzione risale infatti al I secolo d.C. e per realizzarlo furono distrutti alcuni isolati (con relative insulae, cioè case, abitate, ovviamente). Il teatro di Aosta ha una particolarità: è un teatro chiuso da quattro pareti alte 22 metri e coperto da un tetto.

A dire il vero, non tutti sono concordi sulla copertura, alcuni sostengono che l’ampiezza dell’edificio sia troppo grande per poter sostenere un tetto su capriate. Eppure gli scavi archeologici hanno portato alla luce tegole e le tegole, si sa, si usano per il tetto. E poi le mura sono così spesse, perché sono così spesse se non per sostenere qualcosa di molto pesante come un tetto di tegole?

Gli spettatori si sedevano invece comodamente sui gradini in pietra della cavea, nella parte sud dell’edificio. Il teatro conteneva tre le tremila e le quattromila persone che assistevano a lunghi spettacoli, perlopiù mimi goliardici e irriverenti, commedie dove a recitare erano solo gli uomini perché la recitazione era vietata alle donne, per questo gli attori usavano maschere per interpretare i vari personaggi.

La facciata era decorata con alte statue in bronzo, se ne conservano alcuni frammenti al museo archeologico. È molto raro trovare statue in bronzo (o in metallo in generale) perché il metallo veniva rifuso e in periodo di crisi, quando servivano armi e non statue, queste ultime erano le prime ad essere sacrificate ad una maggiore utilità.

Il Teatro era sicuramente uno dei luoghi più importanti della città, uno dei luoghi più vivaci e colorati. Se vi fermate ad osservarlo potete ancora sentire il vociare delle persone, le risate e le chiacchiere. Con l’avanzare del tempo, però, perse la sua attrattiva. Soprattutto con l’avanzare del cristianesimo, in particolare dal IV secolo, il teatro inizia a svuotarsi. È un luogo di perdizione! Urlano dalle prime basiliche e così la gente smette di frequentarlo ed esso, lentamente, muore.

Nel Medioevo diventa cava di materiale. L’Impero Romano non esiste più ed è difficile reperire materiale. Le rotte commerciali sono ridotte, non scomparse, ma diventa più complicato e meno sicuro mettersi in cammino per le strade e quindi si cercano materiali più vicini. In fondo si tratta di un edificio abbandonato, che senso ha lasciarlo lì? Così alle sue pietre viene data nuova vita ed ecco che le ritroviamo nelle nuove chiese che vengono costruite in città. Compaiono, un po’ qui e un po’ là, sono materiali di buona qualità sarebbe un peccato non usarli.

Intanto le mura che ancora sono in piedi vengono sfruttate e iniziano ad appoggiarvisi nuove costruzioni. Case. Abitazioni con vista teatro, anzi proprio nel teatro.

Queste case continuano a vivere e giungono fino agli inizi del secolo scorso quando, in un’ondata di entusiasmo per l’antichità classica si decide di riportare il Teatro all’antico splendore e così iniziano i restauri e gli scavi. Le case addossate alle mura vengono buttate giù e piano piano il teatro torna a prendere forma, a riemergere dal passato. Fotografia materiale di un tempo lontano.

Ricordo che da bambina lo avevo visto sempre impalcato. Ci passavo, ogni tanto, e pensavo che sarebbe stato bello vederlo libero da quella gabbia. Venne liberato solo nel 2010 e fu per me, archeologa in erba al primo anno di università, un’emozione vera.

In questi giorni è cornice dei mercatini di Natale e lasciatemi dire che sono proprio belli.

Il passato che continua a vivere nel presente.

Per approfondire:

AA.VV., MAR Museo Archeologico Regionale. Guida Contesti Temi, Musumeci Editore, Aosta, 2014

AA.VV., Il Teatro Romano di Aosta, Collana Cadran Solaire, Aosta, 2012

Corni F., Aosta romana. Aosta ville romaine, Litograf srl, Rosta (TO), 2014