Alla ricerca di storie perdute

Alla ricerca di storie perdute

È meraviglioso vivere in una città che porta sulle spalle più di duemila anni di vita.

Ogni via si appoggia su un racconto lontano. Infiniti passi hanno percorso quelle strade, milioni di occhi hanno guardato le stelle da quegli stessi angoli, quanti respiri tra quelle mura, sorrisi, risa, lacrime, urla, pianti. Quanta vita vissuta e passata.

Infinite storie rimaste nascoste sotto il tempo.

Succede, però, che con il tempo la città cambia, muta, si trasforma. E succede che a volte capiti che si debba andare a disturbare il passato che dorme sotto gli strati che si sono accumulati con il passare degli anni. Perché quando una città diventa moderna ha bisogno di tubature nuove e poi cavi telefonici e poi che fai, non la metti la fibra? E poi nuovi metodi di riscaldamento, nuovi edifici con fondamenta tutte da costruire.

E capita che, in una città così longeva, quando si scava un pochino ecco che tornano a galla frammenti di tempi lontani, pagine di una storia antica e importante. Perché è la nostra storia.

A volte ci danno fastidio i cantieri in città, ci innervosisce vedere come i lavori vadano a rilento, ma è necessario documentare ogni traccia di ciò che siamo stati prima di ricoprire tutto. Nulla deve essere nuovamente dimenticato. Si parla di noi, di ciò che eravamo e di ciò che siamo.

Sono ormai diversi anni, per esempio, che ad Aosta si buca la strada per la posa del Teleriscaldamento.

E forse non tutti sanno che questi scavi, spesso scomodi ed ingombranti, ci hanno restituito importanti informazioni sul nostro passato. Informazioni che gli archeologi, attenti lettori degli strati del terreno, hanno messo insieme per ricostruire un altro tassello di quell’immenso puzzle che è la nostra storia.

Ed ecco che spuntano antiche arature di III millennio a.C., testimoni di un’epoca antica, molto prima dei più famosi Romani. Non c’era ancora Augusta Praetoria, ma vi erano genti che abitavano queste terre in un tempo che siamo soliti dimenticare.

Gli strati messi in luce dai lavori permettono di andare avanti nella lettura di questo incredibile libro scritto sulla terra. Gli anni passano e diventano secoli e poi ancora millenni ed ecco che si vedono comparire le tracce lasciate dai Celti, che giungono in questa splendida Valle intorno all’VIII secolo a.C. Siamo nel mezzo dell’Età del Ferro. Possiamo immaginarli, quasi vederli, che giungono tra queste montagne e di sicuro la meraviglia che coglie noi ogni volta che alziamo, ancora oggi, lo sguardo verso le vette innevate, deve aver colto anche loro. In fondo non erano poi così tanto diversi da noi.

Ovviamente non mancano le testimonianze romane, come il bellissimo corredo rinvenuto in quella che è una tomba ad incinerazione trovata nel corso dei lavori in via Lys. Siamo all’interno della necropoli occidentale (di necropoli ne ho parlato qui). Accanto all’urna funeraria contenente le ceneri del defunto sono state trovate bottiglie e ciotole, forse parte del rituale funerario, offerte da chi aveva amato il defunto nel corso del banchetto funebre al quale simbolicamente anch’egli partecipava. E poi unguentari in vetro e una lucerna, simbolo di luce nella vita dopo la morte.

Ho un piccolo aneddoto su questo corredo. In quegli anni io svolgevo un tirocinio per l’università presso la Soprintendenza, un giorno mi portarono al magazzino e, tra gli altri, potei vedere con i miei occhi proprio questi oggetti. Meravigliosi. Come se il tempo si fosse fermato, una fotografia materiale del tempo che fu.

E poi dai Romani al Medioevo. Tracce di riuso delle aree funerarie e poi ancora i segni dello spostamento della viabilità. La città che cambia, si trasforma e tutti questi cambiamenti, anche i più piccoli, lasciano segni nel terreno. Un puzzle da ricomporre con pazienza e attenzione.

Queste sono solo alcune delle infinite tracce che gli archeologi riescono a leggere e che traducono per noi, per far sì che ognuno di noi possa appropriarsi della propria storia.

Per questo quando si realizzano opere pubbliche che prevedono scavo di suolo è importante che vi siano anche gli archeologi, per questo è importante, alle volte, fermare o rallentare i lavori: affinché nessuno di noi venga privato di un pezzo di sé.

Questo è però solo l’inizio, gli scavi e le storie sono tante.

Continua…

Per approfondire:

AA.VV., Altri popoli. Falisci/Celti, Akhet edizioni, Aosta, 2016

Armirotti A., Cortelazzo M., De Gregorio L., Wicks D., Il Teleriscaldamento della città di Aosta. Dalle trincee per la posa dei tubi alla mostra sull’archeologia preventiva, in Bollettino della Soprintendenza per i Beni e le Attività culturali, n 13, Aosta, 2016

Morire ad Augusta Prætoria

Morire ad Augusta Prætoria

Tanto tempo fa, quando Aosta era Augusta Prætoria, non c’era nessun luogo in città dove poter seppellire i morti.

Era vietato: si seppelliva fuori le mura, oltre il pomerium, il limite sacro della città che coincideva con le mura.

Ed ecco allora che comparvero ai lati delle strade le epigrafi funerarie, le iscrizioni che parlavano direttamente ai passanti per tramandare la memoria di chi c’era stato, di chi aveva vissuto, camminato per quelle strade, di chi aveva parlato e sussurrato tra le mura di quelle domus, di chi aveva corso, rincorso, pianto e sorriso.

Fermati, tu, passante, ascolta le mie parole, leggi di me, chi sono stato, che cosa ho fatto, come ho vissuto.

Finché ho vissuto ho guadagnato denaro né ho mai smesso di perderne. È intervenuta la morte: ora sono libero da entrambi gli sforzi.

Così ci parla Publio Vinesio Fermo nell’epigrafe conservata al museo archeologico, rinvenuta nel 1728 nei pressi dell’odierna chiesa di Saint Etienne.

I numerosi ritrovamenti di iscrizioni funerarie, nonché resti di sarcofagi, nei pressi di questa chiesa situata poco oltre la Porta Principalis Sinistra, la porta nord dell’antica città, hanno fatto a lungo credere che qui si trovasse la necropoli settentrionale.

Questa ipotesi è stata però smentita dagli incredibili ritrovamenti degli scavi per la costruzione del nuovo ospedale. La necropoli settentrionale si trova certamente lì.

Perché allora ci sono così tanti ritrovamenti a Saint Etienne?

Nel Medioevo persino le necropoli diventano luoghi in cui recuperare materiale, così ecco che le pietre delle epigrafi, o i sarcofagi, diventano utili per essere riutilizzati come coperture di tombe o per diventare lastre murarie.

Ma non vi era solo una necropoli. Anche la strada che portava alla Porta Pretoria era costellata da epigrafi. Era importante mantenere un contatto con il mondo dei vivi. Se chi cammina si ferma a leggere di me, di chi ero un tempo, allora in qualche modo continuerò a vivere. Era un modo per esorcizzare la morte, per continuare a vivere attraverso il tempo.

Ed è proprio nei pressi di questa strada che verrà costruita la prima chiesa funeraria cristiana. La basilica paleocristiana di San Lorenzo e poi, di fronte, quella di Sant’Orso.

Perché nulla nasce per caso, c’è sempre continuità, come se quel suolo utilizzato per seppellire i morti continuasse con il passare del tempo, delle epoche e della mentalità, a mantenere un significato quasi spirituale, di rispetto. Da necropoli diventa chiesa.

Accade più o meno lo stesso alla necropoli occidentale, quella fuori Porta Decumana.

Lì, ancora oggi, è possibile scendere a vedere i resti di quell’antica necropoli. Una piccola porzione di quella grande area funeraria, conservata sotto gli edifici di quello che oggi è corso Battaglione.

Necropoli romana che diventa con il tempo luogo di sepoltura cristiano.

Aosta si sta trasformando, sta diventando una città cristiana.

Siamo nel IV secolo ma questa è un’altra storia.

Per approfondire:

AA.VV., MAR Museo Archeologico Regionale. Guida Contesti Temi, Musumeci Editore, Aosta, 2014

AA.VV., Il complesso monumentale di Sant’Orso in Aosta, Collana Cadran Solaire, Aosta, 2009

Zanotto A., Histoire de la Vallée d’Aoste, Musumeci Editeur, Aosta, 1980

Su un rivolo d’acqua

Su un rivolo d’acqua

Voglio raccontarvi una storia inconsueta.

Di un luogo magico dove si respira ancora l’aria antica, come se il tempo si fosse fermato.

Dobbiamo andare indietro fino al XIII secolo.

Siamo nel pieno del Medioevo quando i nostri antenati costruiscono una struttura che si ispira direttamente a qualcosa che già i Romani avevano fatto.

Tutti noi conosciamo il famoso ponte acquedotto di Pont d’Aël. Una struttura ingegneristica incredibile. Al di sopra scorreva l’acqua mentre all’interno si camminava. Oggi possiamo tornare lì e sentire ancora quei passi che risuonano. Un altro luogo in cui il tempo non è mai scivolato via davvero.

Ed è proprio a questo che si ispirano i nostri antenati quando decidono di costruire il Grand Arvou.

Siamo a Porossan, poco sopra Aosta. Un luogo circondato dal verde dove spicca questo ponte acquedotto. Si sente ancora lo scroscio dell’acqua che ci trasporta in quel tempo lontano. Possiamo quasi vedere con gli occhi di queste vecchie pietre, sentire i respiri di chi è passato di qui. Di chi c’era e ha vissuto i nostri stessi luoghi.

Quest’opera fu costruita sul Ru Prévôt. I rus costellano la nostra Valle. Sono delle canalizzazioni che servono a portare acqua nelle zone più aride, dalle vette scendono verso valle, irrigando.

Una fitta rete fatta di acqua, tra le più organizzate dell’arco alpino in età medievale.

E allora, nelle giornate di sole, quando il forte vento ha spazzato via ogni nuvola e il cielo è limpido e azzurro, conviene fare una passeggiata, per un tuffo nella storia.

Per scoprire un angolo di passato ancora così presente.

Per approfondire:

Zanotto A., Histoire de la Vallée d’Aoste, Musumeci Editeur, Aosta, 1980

Una capanna in città

Una capanna in città

Oggi facciamo di nuovo un grande salto indietro nel tempo e mentre saltiamo vediamo sotto di noi la Valle che si ricopre di verde. Spariscono i paesi, le strade, la città. Non ci sono le mura, gli edifici.

Ci sono due fiumi. La Dora e il Buthier, ancora senza nome. C’è una piana immersa nelle montagne, alte e innevate. E lì, nel mezzo, ci sono i nostri antenati che coltivano piante e allevano animali.

Siamo abituati a pensare a questo luogo come un luogo dei Romani, quasi come se prima non vi fosse nessuno, un luogo incontaminato che solo grazie ad Augusto divenne colonizzato e abitato dall’uomo.

Non fu così.

Prima dei Romani i Salassi e prima ancora popolazioni che abitavano in un territorio strategico e fertile, che intessevano legami con le popolazioni d’oltralpe, che commerciavano, che si spostavano.

Insomma, un territorio vivace e ricco.

Questi nostri antichi antenati non vivevano in città di pietra, non avevano edifici monumentali né statue. All’epoca si viveva in capanne costruite con materiale deperibile: legno, paglia, terra. Per questo facciamo fatica ad immaginarci quel tempo lontano: non ci sono resti visibili del passaggio di quegli uomini, donne e bambini.

O almeno così ci sembra.

Già, perché se si sa dove guardare, ecco che queste tracce compaiono e piano piano si riesce a ricostruire una storia che sembrava perduta. In fondo, gli archeologi servono proprio a questo, a riportare alla luce le tracce nascoste e permettere a tutti di comprenderle.

Forse non tutti sanno che circa una decina di anni fa gli archeologi hanno trovato queste tracce lontane durante i lavori per la realizzazione del parcheggio dell’ospedale in via Roma. Qui, sotto numerosi metri di terra, sono venuti alla luce frammenti di un antico insediamento. Buche di palo che permettono di ipotizzare la presenza di almeno due strutture lignee differenti. Due capanne! E poi ancora ceramica, focolari, materiale combusto.

Questi ritrovamenti si datano all’ Età del Bronzo, quindi siamo in quel periodo compreso tra il III e il II millennio a.C. Davvero tantissimo tempo fa!

Questo insediamento è probabilmente collegato a quanto rinvenuto nel corso degli scavi dell’ospedale Parini. Lì è venuto alla luce un sito davvero importantissimo, una fotografia che dalla Preistoria giunge fino al XX secolo. Un sito che con il cerchio di pietre, il guerriero celtico, le impronte dei Salassi, il cimitero romano, medievale e moderno, racconta davvero molto della nostra città.

Per questo gli scavi e ciò che hanno portato alla luce sono tanto importanti.

Questa, però, è un’altra storia.

Per approfondire:

Framarin P., De Davide C., Wicks D., Un nuovo insediamento preistorico in via Roma ad Aosta, in AA.VV., Bollettino della Soprintendenza per i beni e le attività culturali, Aosta, 2011

Ma che bel castello

Ma che bel castello

C’era una volta, tanto tempo fa, un signore, capo di una famiglia che si chiamava De Amavilla.

Siamo all’alba del XIII secolo e il signore aveva deciso di costruire un castello. Non era un vero e proprio castello come ce lo immaginiamo oggi con alte torri e verdi cortili. Era, in realtà, una casaforte: un unico blocco di muratura alto tre piani (immagine 1).

Questo strano castello era però circondato da una cinta muraria che lo rendeva un vero e proprio castrum, un luogo fortificato dove, in caso di guerra, tutti gli abitanti del borgo potevano rifugiarsi.

E, infine, era un simbolo di potere: osservandolo era chiaro a tutti chi comandava.

Un giorno, però, arrivò un’altra importante famiglia, gli Challant, e nel XIV secolo questo castello passò nelle mani di Aimone di Challant che decise che era giunto il momento di fargli cambiare forma, per farlo diventare più grande.

Aimone fece costruire una seconda cinta muraria e allargare il torrione, quella strana casaforte che era all’origine, rendendolo ancora più maestoso, simbolo del potere della sua famiglia.

Intanto il tempo passava e Aimone morì. Il castello passò dunque al figlio, Amedeo, che aveva un obiettivo: terminare i lavori che aveva in mente entro la data del suo matrimonio con la sua bella Louise de Miolans.

Eh sì, Amedeo voleva un castello ancora più grande e bello di quello del padre, e fu così che nel 1413, nel giorno delle sue nozze, la struttura si presentò arricchita di quattro torri, una ad ogni angolo, che la resero una vera e propria dimora signorile, proprio come voleva il suo signore (immagine 2).

I signori non erano però ancora soddisfatti, non si accontentavano mai, così verso la fine del secolo, decisero di alzare le torri realizzandone l’ultimo piano, un po’ più vicino al cielo. Ora sì che era davvero magnifico!

Passarono gli anni e poi i secoli. Ed eccoci giunti nel periodo 1713-1728, quando Joseph-Félix di Challant decise che era arrivato il momento di modernizzare un po’ l’aspetto di quel vecchio castello. Fu così che fece costruire i loggiati che chiudono ancora oggi gli spazi tra le quattro torri (immagine 3).

L’esterno rimase così, immutato nel corso degli anni successivi. L’interno, invece, subì ancora numerose ristrutturazioni, man mano che il castello cessava di essere una proprietà degli Challant per passare ad altre famiglie, di mano in mano, fino al 1970, quando la Regione Valle d’Aosta decise di acquistarlo e restituirlo alla collettività tutta.

Dell’edificio più antico resta poco, ma ancora si vedono alcune porzioni dei muri di fondazione. Se si fa silenzio e si ascolta, è ancora possibile sentire le storie che hanno da raccontare, i passi che hanno attraversato le stanze, i respiri, i pianti, le risa, i sospiri di paura e le urla di gioia. Se poi salite fin sopra all’ultima sala e arrivate nel sottotetto, potrete osservare le travi originali (immagine 4), datate al XV secolo, immortali frammenti di un lontano passato che ancora ci guarda, immutabile e misterioso.

Oggi questo castello è ritornato al suo antico splendore, in seguito ad un sapiente lavoro di ristrutturazione e restauro. Dimora divenuta museo restituito a tutti noi. Un gioiello da conservare e proteggere che conserva nelle sue pareti, nei soffitti e nelle stanze, tutta la lunga storia che racchiude, ancora visibile, quasi tangibile.

Una storia a lieto fine, questa, ed è così che voglio augurare anche a voi un lieto fine che possa portare sorrisi al nuovo anno che verrà.

Auguri!

Per approfondire:

AA.VV., Il castello di Aymaville, Collana Cadran Solaire, Aosta, 2004.

Platania D., Vallet V.M. (a cura di), Chateau d’Aymaville. Guida, Tipografia valdostana, Aosta, 2021